mercoledì 16 gennaio 2013

Vincenzina e la fabbrica



La ragazza sta spiegando alla signora come compilare il modulo: qui la firma, qui il documento di identità, qui comune di iscrizione alle liste elettorali. Sono sedute al tavolo della terrazza della pasticceria, la signora tiene un’MS tra le dita rugose mentre scrive i suoi dati e la ragazza allontana con la mano il fumo che le arrossa gli occhi chiari, indicando i campi vuoti.
Io l’avevo capito che era qualcosa di elettorale ed ero lì lì per chiedere, ché mi piace partecipare, ma c’è chi mi precede.
“Non è un voto, è solo un sostegno ad una persona. Mio cognato, il marito di Vincenzina, si candida al Senato”. Che bello, ci sono ancora persone che si chiamano Vincenzina.
“Io voto Berlusconi”. Ecco, così mi tocca guardare bene chi è che parla. Una vecchia, mi si permetta il termine, con il turbante di lana, gli occhiali da miope, il cappotto con il collo di pelliccia e la voce roca da fumatrice accanita. “Perché ha detto che toglie l’IMU”.
“Infatti mio cognato si presenta con lui e lo voto anch’io”
Mi sarebbe anche stata simpatica la ragazza, ha un bel modo di fare, gli occhi vispi e un lieve accento napoletano che mi aveva già fatto immaginare storie di decisioni sofferte e traslochi euforici e attivismo equosolidale, e magari sarei tornata a bere il caffè nel suo bar qualche altra volta nelle mie peregrinazioni.
E invece fanculo, mi si permetta il termine. Ho pochi soldi ma scelgo come mi spendo, e questi sono gli ultimi 80 cent che passeranno dalle tasche della mia giacca alla cassa di questa pasticceria, e fischietto Vincenzina e la fabbrica, che mi ha sempre fatto venire la mestizia, ma oggi la fischio con orgoglio.

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