sabato 14 gennaio 2012

Imperfetto

C’erano due cose che mi piacevano davvero del quartiere Isola. Il ponte di via Quadrio e il sottopasso per la stazione Garibaldi.
Il ponte mi era sempre sembrato un miraggio, era libero in qualsiasi momento. Mi piaceva la dimensione della carreggiata, l’aspetto incompiuto, la velocità con cui lasciava correre la vista sul fascio di strade ferrate. Il suo asfalto dissestato assisteva agli eventi della notte, dalle risse al sound system. Si sarebbe detto un ponte inutile invece era fondamentale; a senso unico, ma era il senso giusto per me.
Se non dovevo passare sopra la ferrovia, la sottopassavo. Non aveva niente di speciale il sottopasso, ad esclusione della sua esistenza. E se dovevi andare a prendere la metropolitana in Garibaldi e stavi all’Isola, era lui che faceva la differenza. Percorrerlo metteva un po’ di inquietudine, non c’era mai troppa gente; filippine, studenti, egiziani, nonne, in ordine sparso e senza pressione.  Era lungo stretto buio e brutto. Alla fine del sottopasso c’era un’altra Milano, quella di corso Como e del terminal, ed è subito Brera.

Fabio abitava all’Isola da quando non era ancora L’Isola; si era subito innamorato di lei. Era stregato dal suo mondo variopinto fatto di botteghe e banchi del mercato, di discoteche nei centri sociali, ristoranti nelle case occupate e di brunch nei bar. Aveva rapporti con tutto ciò che vi accadeva, come affezionato spettatore, incuriosito frequentatore, cliente spensierato, spietato assenteista.
Davanti al portone di casa sua c’erano uno sciame di motorini cannibalizzati e una macchina sempre diversa ad occupare il passo carraio, gli amici del vecchio elettricista e i senegalesi del palazzo. I vecchini osservavano il viavai, fornivano consulenze su tecniche di riparazione, calciomercato e economia politica; i senegalesi facevano la posta al portone per guadagnare il cortile, montare sul muro dell’officina e entrare nel sottotetto dove abitavano.
Sul citofono accanto al portone non c’era il cognome di Fabio, perché era in perenne lite con l’amministratore e non gliel’aveva mai fatto mettere, e quando con un moto d’orgoglio se l’era messo da solo, s’era cancellato alla prima pioggia.

Fabio mi aveva accolto in casa quando mi ero sfidanzata. Era abituato a dividere un appartamento, prima di comprare casa lo aveva fatto per anni, nelle più diverse e interessanti situazioni.
Ridevamo un casino e ci capivamo alla perfezione. Aprivamo tavole rotonde di logica, critica storica, tecnologia, politica, psicosociologia, teoria della comunicazione, psicanalisi, dialettica; i nostri preferiti erano i contest di ironia ma non disdegnavamo i discorsi a cazzo. Adoravamo fare a gara di ovvietà e luoghi comuni, tipo che so, ospiti un’amica e finisci per rovinare l’amicizia. Fabio era il mio amico speciale.
La casa era il classico bilocale di ringhiera all’ultimo piano senza ascensore. La famiglia che l’abitava prima di lui aveva ricavato una stanza cieca per i due figli, assai somigliante alla stanza segreta del covo di via Montalcini. Fabio ne aveva salvato la memoria e trasformando il loculo in cabina armadio con soppalco-letto grazie a una solidale manovalanza qualificata e un uso spregiudicato del colore.
Io dormivo ai piedi del soppalco nel cosiddetto angolo arabo, costituito da n. 4 pallets di autentica antimateria, un materasso e svariati cuscini. Condividevano il nostro nido d’amicizia due gatti soriani, Cafi e Prozac, ai quali Fabio elargiva affetto e croccantini e veniva ricompensato con infinita tenerezza e una cassetta da pulire tutti i santi giorni.
Aveva ridotto i suoi vestiti per fare spazio ai miei, mi aveva dotato di un mazzo di chiavi e data totale disponibilità di casa e mezzi di trasporto, senza domandarmi per quanto tempo sarei rimasta.

La prima cosa che ho fatto quando mi sono trasferita da Fabio è stato pulire il bagno. Non perché fosse particolarmente sporco, ma per ripagare il suo gesto cortese con uno altrettanto. Che invece nella mia scala delle azioni indelicate verso terzi, pulire il bagno sta sicuramente dopo leggere il diario ma decisamente prima di stendere una lavatrice di intimi. Infatti quando l’ho pulito si è sminchiato lo scarico della doccia.
La seconda cosa che ho fatto è stata cucinare una pasta col tonno, e siccome l’avevo fatta con tanto amore per festeggiare l’inizio della nostra amicale convivenza  e  per farmi perdonare del danno alla doccia, era venuta davvero buona, tanto che verrà registrata nei nostri annali come la più buona che abbia mai mangiato.

Dalla pasta col tonno in avanti la storia ha vissuto di vita propria. Ci lasciavamo biglietti per le comunicazioni di servizio, dividevamo la spesa del super e condividevamo  esperienze, amicizie e confidenze vivendo in una bolla di sincerità complice e disinteressata. La nostra convivenza sfiorava livelli di perfetta empatia.
Quando l’onda ha cominciato la sua discesa, Fabio non è tornato a dormire per tre notti di fila e ci ho pure messo tre notti per realizzarlo. Mi è tornato in mente lo scarico della doccia. A volte ospiti un’amica che ti pulisce il piatto doccia e tu, dopo due ore, ti ritrovi a staccare l’assegno all’idraulico. L’inconsapevole catastrofico battito d’ali della farfalla agli antipodi.
E poi mi sono ricordata della pasta con il tonno.
Così ho raccolto il suo garbato quanto perentorio segnale di malessere, ho scritto il mio ultimo biglietto, e mi sono levata di lì.
E’ bello sapere che un piatto doccia e uno di pasta possono sventare un luogo comune.

venerdì 13 gennaio 2012

Liù

"Dopo me ne dai uno?"
"No".
"E quello cos’è?"
"Veleno per bambini".
In realtà sono bottiglie di soda schweppes da due litri, ma evidentemente il barista non ha voglia di spiegare.
Il bambino lo guarda riporre le bottiglie e poi guarda me.
"Quello cos’è, sambuca?"
"No, è rum -gli dico io- mi piace nel caffè".
Il ragazzino lo conosco, era alla materna con mia figlia; è certificato però non so con quale articolo. Lo sguardo non è esattamente sveglio e la parlata è ghiozza, ma qui tutti i bambini parlano così.
"OH, MA LA PIANTI? ti stai zitto?"
Arriva la madre, gli butta addosso un’occhiata truce e poi torna alla macchinetta cambia soldi.
Anche lei la conosco di vista, anzi una volta le ho pure dato un passaggio. Una mattina mi ha chiesto se andavo a Viareggio ché lei non ha la patente.
"Vado fino a lì" le dico
"Perfetto" fa lei "Mi puoi lasciare al Bar L’Onda".
Monta in auto; quasi subito mi chiama Ale:
"Dove sei cosa fai?"
"Vado in ufficio ma prima accompagno una... mamma? no: una nonna al Bar L’Onda"
"Veramente sono la mamma"
"Oh, scusa. Anche tu sei diventata mamma tardi come me?"
"Veramente ho 36 anni".
Meglio che sto zitta.
Al Bar l’Onda ringrazia e scende; io richiamo Ale.
"Che figura dimmerda! E’ la mamma!"
"Tanto se lo dimentica subito - mi dice lui - Se va al Bar L’Onda è per giocare alle macchinette".

E infatti, anche ora è nella saletta delle slot e il figlio la aspetta e si rompe i coglioni.

Un paio d’anni fa è finita anche sul giornale. Non lei, veramente suo marito: si era ribaltato con il trattore mentre lavorava nel campo di un’azienda agricola. Quando l’hanno tirato fuori sembrava che non ci fosse niente da fare, poi che dovesse perdere le gambe, poi il suo angelo custode o il destino beffardo è intervenuto ed è rimasto storpio. Tutte le mamme del plesso erano sconvolte dalla storia, per qualche giorno.
Il barista continua a metter via bottiglie e io do un’occhiata alla saletta. Le macchinette parlano, il fumo brucia agli occhi, nessuno solleva lo sguardo. Con tutte quelle macchine non ci paghi l’affitto del locale, ma le bollette sì.
Anche al Tremotino c’erano le macchinette, ma quando mio marito ne ha preso la gestione non ha avuto dubbi
"Io tolgo i videopoker e ci metto un flipper e un biliardino, almeno ci giocano i ragazzi. Non ne voglio di gente che viene qui a bere, fumare e rovinarsi".
Per sei mesi il tipo che veniva a scaricare il flipper insisteva
"Ma siete sicuri? Mettetene almeno una, per provare. 200 euro al mese ce li fate. Basta dire che è vietato fumare".
E salutava sempre con "quando ci ripensate…"
Abbiamo perso qualche cliente, che va a giocare da un’altra parte, e ricevuto i ringraziamenti di qualche altro, "che io mi ci sono rovinato qui, e continuerei a farlo", che poi è comunque andato in un altro bar dove hanno le macchinette. Ma abbiamo continuato senza il videopoker.
La nostra amica Simona mi ha anche detto: "e non avete avuto problemi, quando avete detto che le volevate togliere? Nel bar dove vado a fare colazione non hanno potuto, il tipo del concessionario ha fatto capire che sarebbe stato meglio lasciarle lì”. E’ come pagare un pizzo, ma senza capire bene a quale organizzazione. Un pizzo in termini di dignità.
Quel bambino con lo sguardo rallentato che aspetta la madre mi dice che va bene così. Farebbe comodo, eccome, qualche macchinetta mangiasoldi. Prendi il 50% degli incassi. Ne metti quattro, hai elettricità e gas pagati. Però hai anche mamme che chiamano i figli “OH”, figli che cercano qualcuno con cui parlare, mariti che se va bene vengono spediti in terapia dal giudice e nonni che si giocano la pensione.
Ora, dico io, se proprio devo pagare le bollette vendendo qualcosa che produce dipendenza e alienazione e ingrassa le organizzazione paracriminali,  non sarebbe meglio se mi permettessero di coltivare la maria? Almeno la mafia la prenderebbe nel culo, mentre i bambini no.

domenica 1 gennaio 2012

Cronaca di un capodanno visto dall'altra parte del banco

Per il cenone avevano 25 persone di cui 3 non paganti, in quanto addetti all’animazione postprandiale.

Alle 20 circa si aprono i giochi, e vado al banco. Servo qualche coppetta di prosecco a qualche euforico tardone (mio coetaneo) e cerco di spiegare a una signora pettinatissima che se si chiama “prosecco” vuol dire che è secco e che il “prosecco dolce” non…  va bè, ecco il suo prosecco dolce signora.

Dopo il giro di coppette tutti seduti, con scambio dei tavoli e conseguente riorganizzazione della sala. Ma siamo qui per divertirci lavorando e così ci divertiamo.
La cena corre senza intoppi grazie a quel sant’uomo di mio marito che non perde occasione di mettere ordinatamente in colonna angeli santi e la trinità al completo ma che sa anche cucinare strabene e grazie alla nostra qualificata manovalanza: il Cinquo, studente d’ingegneria che arrotonda come cameriere (un cervello rubato a questo mestiere, sostiene il sant’uomo), Carlà la sua volenterosa fidanzata palermitana fuori sede, e Filippino, il nostro ottimo pizzaiolo.

Appena cacciata in gola l’ultima lenticchia scatta la mezzanotte. Pim pum pam evviva evviva buon anno Maracaibo taratatatà mare forza nove.
Averlo saputo gli avrei fatto pagare il cenone.
Ma è solo l’inizio, poi la programmazione svolta al reagge, purtroppo.
Scopro che il reagge è finalizzato a cacciare i tardoni, che infatti se ne vanno semi istantaneamente.
Usciti i tardoni viene rilasciata deroga al divieto di fumo, quindi si formano le catene di montaggio delle canne e in breve sembra di stare in Utrechtstrasse. In capo a mezz’ora la sala è nebbiosa e profumata.
Si passa al roots. Ora, il roots non è male, giusto appena un po’ ripetitivo.
Se stai dietro il banco non puoi fare la faccia di quella che avrebbe preferito i chemical bros, e siccome dietro il banco faccio poco perché cocktail e long drink li prepara il sant’uomo, che è il suo mestiere, finita la scossa di caffè e amari mi dedico a lavare i bicchieri, alle birre, alla danza e all’osservazione.

Intanto osservo  mio marito che tra un mojito, un negroni (s/cannuccia) scatta foto e riprende la situazione dal banco: dj, avventori, tacchi 12 e culi sprecati delle ragazze presenti.
Poi osservo le ragazze presenti. Avendo il tacco 12 non tutte ballano. Sono carine ma senza esagerare, la bellezza dei loro 24 anni circa, ragazzotte di paese uscite per festeggiare con il fidanzato e gli amici. Saranno una trentina di ragazzi, si conoscono tutti. Il clima è allegro senza eccesso, nessuno cerca la briga, nessuno apre lo spumante inondando la sala, nessuno chiede al dj mi metti aeiouy, nessuno balla la lap dance.

Nico è un atleta, fa triathlon. E’ alto e ben messo e ha la barba sfatta. Alle nove meno un quarto aveva già l’occhio ribaltato dal sonno. La sua ragazza è abbondante, rumorosa e goffa. E’ quella che rovescia sempre l’ultima bevuta sul banco quando si sta per chiudere. Balla ride canta e ogni volta che incrocia lo sguardo del suo uomo semiaddormentato, gli si butta addosso e cerca di infilargli la lingua in bocca. Lui puntualmente schiva. Tipa, non sta a me dirlo, ma non la vedo una storia con un futuro, la vostra.

Chicco si è finalmente tagliato i capelli, ora è molto fashion e batte il cinque in continuazione, la sua ragazza ha il viso da bambolina e le scarpe più belle della serata. Ha concesso la liberatoria a mio marito. Il destinatario dell’sms ha molto gradito e dovrebbe ringraziarmi per il nulla osta.

C’è uno molto simile a Lindo Ferretti che rimane nella medesima posizione tutta la sera, seduto sul tavolo accanto alla finestra come un’inquietante sagoma di sé stesso in scala 1:1.
Il Citti produceva il nostro vino della casa, ma la crisi è la crisi e ha liquidato l’azienda. La moglie fa l’avvocato, è vestita come un ferrero rocher in nero e pare sia uno squalo. Infatti è un’ora che lui mi ha salutato e l’aspetta sulla porta e lei balla spensierata.

Il Pelle è il mio preferito. Ha lo sguardo naif ed è pettinato come un’ananas, non si è mai tolto il parka e la kephia. Ha chiesto un “Grande Vodka Tonic” per sé e la sua dolcemetà e ha compilato il modulo per la tessera 2012. Come nota a margine ha specificato: se proprio ‘un lo capite sono briao.
Alla sua ragazza appartiene uno dei culi sprecati. Di solito è pimpante ma il tacco 12 la penalizza. E’ celiaca e per dolce prende le gallette di riso con mascarpone e nutella e chiede sempre di andare in bagno quando ormai è stato pulito e il sant’uomo sta per dare la buonanotte a tutti. Il Cinquo la saluta abitualmente chiedendole sibillino: “ce la fai a stare zitta 20 minuti?”

I djs sono affascinanti di default, è il fascino del mixer. Uno dei due assomiglia a un Pif in carne, l’altro ha una selezione musicale più interessante.  Si danno il cambio e non disdegnano il vinile.
Chiudono la serata con un pezzo che ahimè non conosco ma che conoscono tutti ma proprio tutti. Quindi con sorrisi felici iniziano a sciamare verso casa. Anche il Citti, se dio vuole, riesce a portare via sua moglie.

Il Cinquo barcolla lieto mentre aspira l’ultimo chopito di vodka. Filippino non è riuscito ad individuare il penultimo bicchiere al quale fermarsi e ha dovuto abbracciare la tazza del wc per dare il buon anno anche a lei. Per fortuna la brava Agnese (un nome, una garanzia), sua compagna convivente, si astiene dall’alcool per disinteresse e per amore e così riporta lei a casa la crew al completo.

Sulla strada del ritorno faccio mente locale. Sono le cinque del mattino, io e il sant’uomo abbiamo lavorato 19 ore senza contare gli altri giorni di approvvigionamenti e preparazioni, l’incasso della serata basterà a pagare i ragazzi e una percentuale delle spese vive.
Se non fosse per gli smartphone, il mixer digitale e la musica decisamente contemporanea questa serata avrebbe potuto svolgersi 60 anni fa.
Rifletto sull’immagine mia e del sant’uomo che serviamo ai tavoli sulla terrazza di una locanda a Ostia Lido nello sfascio del dopoguerra carico di speranze e rallento per far passare una famiglia di cinghiali che mi attraversa la strada.

E finalmente guadagno il sospirato letto.