domenica 26 settembre 2010

Costumi civili

Fummo unanimi nella scelta della frontiera francese per il nostro rientro in madrepatria, come pure lo fummo nella decisione di giungervi nell’oscurità.
Ci arrivammo ben oltre la mezzanotte. Noi dame assopite, il cavaliere conducendo il mezzo.
L'improvviso lampo della torcia all'interno della vettura ci svegliò. Una voce calma e ferma interrogò il conducente su città di provenienza e d'origine. A nulla valse l'aspetto compìto del nostro portavoce, assai somigliante al dott. Macy.
La sommessa risposta “Amsterdam. Milano” apparve come una immediata confessione di misfatto.
Così fummo cortesemente invitati a uscire dalla vettura, essendo in animo alle guardie di verificare il contenuto dei nostri bagagli e dell'abitacolo.

Avevo affinato, nei lunghi anni di dedizione al vizio, l'arte di confezionare minuscoli pacchettini regalo utilizzando la carta argentata e il cellophane rimossi all'apertura del pacchetto di bionde. In questi graziosi pacchetti ero solita racchiudere piccole scaglie di lieve sostanza stupefacente, avanzi della sofisticazione di sigarette di monopolio, che poi dislocavo senza giudizio all'interno della vettura, ora sul cruscotto, ora nelle tasche, giacchè in periodi di carestia si erano dimostrate utili scorte.
Non essendovi alcun motivo per sospendere una così soddisfacente attività, ne avevo colposamente prodotti alcuni esemplari anche durante questo mio soggiorno nei Paesi Bassi.

Sortiti che fummo dalla macchina osservammo le guardie procedere alla perquisizione, non senza un velo di preoccupazione. Il cruscotto fu il punto in cui s’iniziò la ricerca, e tosto incontrarono sotto cumuli di cartacce uno dei miei graziosi pacchettini. Affatto sorpresi di fronte alle minuscole dimensioni, le guardie lo osservarono deliziati e lo aprirono.
"Con ogni probabilità tale sostanza è proibita nel vostro paese come nel nostro" fu il garbato intervento della guardia assisa, mentre la eretta ci scrutava attentamente.
"Siamo perciò costretti a chiedervi di consegnarci volontariamente il rimanente quantitativo di sostanza, onde evitare che passiate la frontiera e commettiate un reato internazionale".
La richiesta era doverosa, e noi affermammo all'unisono di essere sprovvisti di qualsivoglia sostanza illecita.

Alla nostra risposta le guardie ripresero l’ispezione ed estrassero un copricapo di lana dalla tasca della portiera del passeggero anteriore.
Al suo interno una pallina di stagnola, nella quale la giovane amica aveva riposto, a nostra insaputa, piccole quantità di ogni singolo tipo di verzura sperimentato durante il soggiorno, per farne dono al fidanzato che l’attendeva in Italia.
Il loro atteggiamento si fece severo e dichiararono che avrebbero richiesto ausilio all’unità cinofila, vista l’insincerità della nostra precedente affermazione.

Non eravamo dediti al commercio internazionale, essendo professionisti nel sublime mestiere dell’architettura, ma nei giorni di studio trascorsi nella capitale olandese avevamo deciso seppur timorosi di portare con noi una modica quantità.
Circa 30 grammi di eccellente Super skunk, custodita in una bustina trasparente.
Essendo il dott. Macy persona rispettabile nell’aspetto ma inquieto nell’animo, e la mia compagna una fanciulla poco più che maggiorenne, optai per farmi corriere della voluttuaria merce. Non ero mossa da alcuna intenzione eroica, perciò decisi che non lo avrei celato in alcun orifizio, bensì in posizione più consona, all’interno delle tasche dei pantaloni, lasciandomi la possibilità di estrarlo e buttarlo all’abbisogna.
Alla luce abbagliante dei riflettori e con la mano stretta come una morsa attorno al preoccupante fardello, sentii distintamente l’afrore mieloso del suo fragrante contenuto solleticarmi le nari. E distinsi in lontananza un elegante esemplare di boxer al guinzaglio dell'istruttore.
Mi trovai nella piena impossibilità di qualsiasi azione, così mantenni la mano in tasca e l’espressione fissa, convertendomi in statua di sale.
Il cane giunse nei nostri pressi e ci annusò con perizia, sotto la supervisione austera delle forze dell’ordine. Amichevole scondinzolò, per quanto gli fosse possibile data la coda assai ridotta, quindi si volse al padrone che lo riportò verso l’ufficio non prima di un cenno del superiore.
Nessuna penosa conseguenza per il nostro illecito quanto incauto agire, ad esclusione di un fermo rimprovero, com’era ovvio in tal circostanza. Pentiti e vergognosi rientrammo nella vettura e ci rimettemmo in viaggio, abbandonando l'ansia e la terra di Francia.

Civile è il paese in cui è permesso ai cani di compagnia di rimanere accanto al proprio padrone, financo sul posto di lavoro.

giovedì 23 settembre 2010

Il patino, la nonna e le mutande

Ce ne stavamo lì seduti sul patino a guardare il mare e ci passavamo la sigaretta.
Lui era magro rifinito e le sue dita erano lunghe e scuotevano la cenere in continuazione; portava grandi anelli e bracciali d’argento e le unghie curate.
Guardavamo il mare e ce ne stavamo lì zitti. Ma io non reggevo mica e ogni tanto gli domandavo come aveva fatto allora. E lui mi raccontava che aveva dovuto corrompere uno sbirro per uscire e poi per tornare in Italia era stato un delirio, che aveva finito i soldi. E poi? Ho contrabbandato pietre preziose. Davvero? Eh sì.
E’ bello il mare a fine agosto, è bello il tramonto. Poi era bello stare lì con Bruno. Perché in fondo non mi aveva mai filato tanto Bruno. Anzi, tanto tempo fa mi faceva l’orso, bruno, per l’appunto.
 Io ero una ragazzina di forse 12 anni e lui era più grande della mia sorella maggiore. La sera se ne stavano lui, lei, l’altra sorella e tutta la compagnia del mare a chiacchierare sul dondolo il giardino. Io arrivavo e mi mettevo lì per sentire le loro battute, che mi facevano ridere. Ero piccola e iperattiva, così Bruno si alzava e cominciava a camminare avanti e indietro, con le braccia piegate in avanti e le mani ciondoloni. Appena provavo a toccarlo per farlo smettere lui si ripiegava la schiena all’indietro, guardava in su, faceva un verso cupo e ruotava di centottanta gradi, ricominciando a camminare nell’altro verso, come l’orso del tiro a segno del luna park. Io mi incazzavo tantissimo.

Bruno aveva capelli corvini, occhi color del cielo e un grande naso elegante. Era bello, intelligente e arguto. Era di Torino e parlava veramente torinese. Sua madre era stupenda e cucinava malissimo. Lo invitavamo per solidarietà a mangiare e lui si esibiva in esilaranti descrizioni del rapporto di sua madre con la cucina. Era di casa a casa nostra al mare.
D’inverno a Torino faceva canottaggio, ma sul serio. Alla fine era entrato nella nazionale. Poi un giorno successe una storia strana, lo esclusero dalle olimpiadi, spaccò un remo dalla rabbia davanti alle telecamere e se ne partì. India, Thailandia e chissà dove ancora, era stato via un sacco di tempo.
Era quella l’estate dello sgombero del Leoncavallo di via Leoncavallo e dell’eclissi totale di luna. Io tornavo da una vacanza intensa in Sardegna vissuta su un vespone 150 px, tenda, 15 giorni senza vedere un campeggio. Ero ammutolita dalla normalità del rientro, e per di più ero lì con mia nonna.

Ora davanti a quel tramonto eravamo lui e io, soli, scossi e assorti nelle rispettive nostalgie, seduti sul patino a dividersi una sigaretta, con gli sguardi lontani, la pelle salata e i pantaloni thai. Io li avevo comprati da un marocchino sulla spiaggia due giorni prima, ma vale lo stesso. Mi sa che lui avrebbe preferito una delle mie sorelle, ma loro ormai facevano le vacanze con i fidanzati e a Torre del Lago non ci venivano più. Io nel frattempo mi beavo di quell’intimità che mi faceva sentire degna di speciali confidenze sottintese.
Quando era tornato in paese era venuto al nostro cancello. Io ero in cucina e aiutavo la nonna, che apparecchiava in giardino. Ho capito che era agitata da come saliva le scale.
"C’è uno zingaro al cancello, dice che è amico vostro. Io gli ho detto che qui non c’è nessuno".
"Ma come non c’è nessuno?"
Era la metà di come lo ricordavo ma era proprio lui.
"Nonna lo conosco, è Bruno".
"E cosa vuole?"
"L’ho invitato a pranzo, che è l’ora giusta".
"Allora digli di mettersi le mutande, che a me quell’affare che balla sotto i pantaloni mi fa effetto".

Alle nonne non interessano le situazioni intense, le scelte della vita e i viaggi alla ricerca di sé stesso. Interessa soprattutto che ci si mettano le mutande.

martedì 24 agosto 2010

Caprera, Neil Young e i piedi nudi

Non sono mai stata a Caprera, cioè alla Scuola Velica di Caprera, è' una cosa che avrei sempre voluto fare ma mai.
Però le mie sorelle ci sono state, l'estate della mia quarta ginnasio. Loro sono più grandi, non di molto, quel tanto che basta per aver potuto fare delle cose che io no. E viceversa.
Quell'anno convinsero mio padre con l'appoggio della mamma e si iscrissero al corso di vela. Vivevamo a Milano e frequentavamo tutte il Liceo Ginnasio Giuseppe Parini, e al Liceo Ginnasio Giuseppe Parini molti, ma non tutti, andavano al corso di vela. Alcuni sono anche diventati velisti.
Quell'estate comprarono le cerate, le scarpe da vela, prepararono lo zaino e partirono.
Alla stazione di Viareggio montarono sul treno che le avrebbe portate al traghetto.  Io le guardavo con i loro zaini e i jeans e le fruit of the loom bianche con quel piccolo logo colorato sulla spalla ed ero molto felice per loro che se ne sarebbero state due settimane in un posto meraviglioso, da sole.
Per tutto il tempo del corso guardavo il mare e pensavo a cosa sarebbe stato imparare ad andare in barca.
Le loro rare telefonate, scandite dal rumore dei gettoni che cadevano, ci raccontavano di vento e di sole, di scuola e scuffiate, di nodi marinari e di cieli stellati, di cene cucinate tutti insieme e consumate al chiaro di luna, perché alla Scuola Velica di Caprera non c'era luce elettrica da sprecare.
Quando tornarono le andai a prendere con mio cugino Mauro.
Con in miei 15 anni ancora da compiere mi sentivo grande, perché le mie sorelle erano state a Caprera e perché mio cugino era il più bello della spiaggia. Portava i jeans e gli stivali camperos e aveva una bellissima cintura di cuoio e tutte le mie amiche erano innamorate di lui. Mi faceva ridere perché era simpatico, aveva occhi furbi e un sorriso delicato.
Quando il treno arrivò scesero loro. Avevano i capelli schiariti dal sole e arricciati dal sale. La pelle abbronzata e le stelle che ancora brillavano nei loro occhi. Calzavano i sandali da indianina e i soliti jeans che si erano strappati per l'uso, le catenine di paillettes e i campanellini alla caviglia. Erano bellissime.
Erano lontane e quasi non parlavano, noi avevamo i biglietti per il concerto di Neil Young. Ci infilammo sulla Renault 5 di mio cugino, ci fermammo a prendere un pezzo di pizza in passeggiata e poi arrivammo allo stadio dei Pini.
Lo stadio era pieno, ma non pieno come sono oggi gli stadi ai concerti. Era pieno ma ci si poteva muovere, e cercammo un buon posto sul pratone. Attorno a noi i ragazzi si riunivano in gruppetti, ogni gruppo aveva chi rollava o preparava un impasto. In breve l'aria assunse il sapore dolciastro della maria e gli occhi cominciarono a bruciare per il fumo denso che restava appiccicato al prato.
Io ero stordita da tutta quella gente così libera, che aspettava pacifica che il concerto cominciasse. Qualcuno ogni tanto si girava e offriva un tiro.  Le mie sorelle tintinnavano ad ogni movimento, ridevano mostrando i loro denti bianchi e i loro occhi azzurri. Era settembre, e al tramonto Neil Young cominciò a suonare.
Era il mio secondo concerto. Il primo, a giugno di quell'estate, sempre allo stadio dei pini, era stato Pino Daniele nel tour di Vai mo', con Toni Esposito, Joe Amoruso, Rino Zurzulo, James Senese e Tullio de Piscopo. Non so perché, ma la formazione della band di Pino mi è rimasta nella memoria e ancora oggi ogni tanto la recito come un mantra.
Invece del concerto di Neil Young ricordo poco, ma mi piacque tantissimo.
Il giorno dopo fu il momento dei racconti della scuola di vela. Avevano fatto le lezioni teoriche e quelle pratiche, avevano iniziato con delle barchette e poi erano  passate a quelle più grandi. Avevano lavorato un sacco  e dovevano dormire il pomeriggio perchè al mattino ci si svegliava presto ed erano stravolte.
La sera gli istruttori mostravano loro il cielo e raccontavano di quella stellina luminosa e tutta sola che aspettava di trovare una stella che le facesse compagnia, ma a me non era dato di sapere se l'avesse trovata.
Mia sorella Susanna era diventata molto selvatica, non portava le scarpe perché diceva che oramai non c'era più abituata. Fumava le camel, che avevano un bel pacchetto e una scritta sul retro con un messaggio nascosto, e le spegneva gettandole a terra e schiacciandole con il piede nudo.
Guardavo ammirata le sue piante dei piedi e cercavo di camminare anch'io a piedi nudi; il ghiaino del parcheggio del bagno Lagomare alla marina di Torre del Lago era dolorosissimo ma ci provavo lo stesso.
Poi ci rimettemmo tutte le scarpe e tornammo a Milano, avevo latino a settembre e gli esami di riparazione da fare, aspettando di compiere 16 anni per potermi iscrivere alla Scuola di Vela di Caprera.