mercoledì 9 gennaio 2013

A Viareggio aspettiamo l'estate


Fu un giorno, cadde la pioggia improvvisa e ci accorgemmo di aver perduto l’estate; eppure non volevamo rassegnarci a indossare i vecchi abiti che sapevano troppo di miseria. Ma non c’era altro da fare e cominciammo a prepararci la testa per la lunga chiacchierata invernale: la nostra testa da inverno. Parlavamo di questo, noi che avremmo passato l’inverno senza una seria occupazione da ragazzi a posto. Infine ci riempì di orgoglio il pensiero di quello che sarebbe accaduto. Eravamo tanto felici e per assaporare a poco a poco questa felicità, misuravamo con pazienza le parole.
Avevamo ballato il boogie-woogie, pur disprezzandolo, forse. I bagnanti se n’erano andati e s’erano portati via i loro bauli, tutta la roba da spiaggia. Le strade d’asfalto erano fradice di pioggia, quel giorno; qualcuno di noi, solo, con la faccia bassa nell’aria sbollita, cominciò a guardarsi in cagnesco, e pensava: “Non mi fregherai quest’anno: meglio solo che con te”.
Si dava la colpa della nostra miseria improvvisa al fatto di vederla riflessa nell’altro. Faceva terrore. Con i ricchi eravamo stati bene, dopotutto: ci avevano regalato da fumare e da bere, e le loro ragazze erano venute volentieri a ballare con tipi come noi. Qualche giornale ci chiamava i selvaggi locali; e noi, in certe ore del giorno, posavamo a selvaggi, quando camminavamo sulla spiaggia fra la gente ricca. Poi ci mescolavamo a loro, prendevamo perfino il loro accento, le loro maniere che ci sembravano raffinate. Qualcuno parlò di impiego a Milano, a Torino, a Roma e anche a Parigi, ma non ci credeva nessuno alle partenze di fine stagione: Sì, qualcuno partiva ogni tanto, ma lo vedevamo tornare umiliato e avvilito più di prima. Non era come sulla spiaggia, laggiù. La vergogna di aver mostrato la nostra debolezza era tanta che ne soffriamo ancora. La gente come noi non lavora. Ben presto non avremo più discusso di impieghi a Milano o a Torino anche se qualche volta dicevamo di essere preoccupati di stare senza fare niente. In fondo quella vita ci piaceva, ci piaceva davvero.
E nelle vetrine e nelle porte dei negozi, nelle finestre delle case lungo le vie, vedevamo, compiaciuti, passare come nei vagoni di un treno i nostri stracci di vestiti, i nostri capelli lunghi, le nostre scarpe alte. A noi soli piaceva però questa vita, non alle nostre famiglie, non alla gente per bene.
I bagnanti non c’erano più: si poteva dunque sgonfiare il torace, strascicare di nuovo i piedi. E di nuovo chiedere le cicche, in principio a voce bassa, prima, e poi con alte grida a distanza. Ci chiedevamo a vicenda e chiedevamo ad altri cinquanta lire, ma al cinema andavamo ogni giorno. Nelle giornate più infami qualcuno ritrovava il vecchio orgoglio. Lo vedevamo solo sulla spiaggia a guardare le proprie orme dopo aver camminato un po’. Non ci sentivamo traditi. Lo facevamo tutti, prima o dopo. In quelle giornate qualcuno andò perfino nei giardini con quei tipi che da ragazzi ci avevano riempito di orrore e di schifo quando ce li sentivamo vicini e sorprendevamo il loro sguardo.
-Ci vorrebbero soldi- ripetevamo esasperati. (...) 
Sempre più il grigio del cielo pesava su di noi e il tempo divenne monotono. Cercavamo, allora, di fissarci in quel tempo. Ma prima di riuscirci i nostri soprabiti giravano vuoti le strade, per giorni; ci riconoscevamo a distanza dal cappotto perché ne avevamo uno solo. Il suo colore era la nostra pelle, il nostro corpo. Durante il giorno andavamo anche a coppie come galeotti nell’ora del passeggio; si parlava, ci aprivamo l’un l’altro su tutto. (...) Ci sentivamo solidali d’inverno. Eppure tante volte preferivamo di stare a letto per non vederci in faccia, ma a tavola, dopo lunghi monologhi, spaccavamo il piatto contro il muro. Ma bastava una giornata di sole, di febbraio: ci si metteva il maglione, subito; e risalivamo la strada dondolando le braccia.
-Altri quaranta giorni – dicevamo – e l’inverno è fregato.
(...)

Rolando Viani, A Viareggio aspettiamo l’estate, 1956

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