domenica 31 luglio 2011

Gazzosa e bruscolini, oggi domani e dopodomani.

 Ci passo davanti praticamente tutti i giorni, da quando inizia l’estate. Tutte le volte giro istintivamente la testa a sinistra, per guardare i poster, e tutte le volte in quell’istante mi ricordo che è chiuso da non so quanti anni.
Si chiamava Tirreno ed era il cinema di Torre del Lago. Era un cinema all’aperto, di quelli con i sedili di legno e seduta a ribalta. Da che ho memoria l’estate era anche il Tirreno. Tutti quei film che non avevamo visto in città potevamo vederli lì. E siccome apriva il primo di giugno e chiudeva il 15 di settembre, potevamo vederli anche più volte, perché la programmazione entrava in loop dopo quattro settimane.
I poster erano affissi su pannelli neri di legno, accanto all’ingresso del parcheggio. "OGGI, DOMANI, DOPODOMANI" ruotavano a turno sui tre pannelli. Accanto, più piccola, la strisciata con i film della settimana.
Altrimenti di arrabbiamo, Un computer con le scarpe da tennis, Papillon, Yuppi du, Kramer contro Kramer, Il campione, Laguna blu. Gli stivali bianchi a punta di John Travolta e la sua latta di vernice; Giuda che corre nel deserto, e la Lori che mi legge i sottotitoli tenendomi sulle ginocchia; la corsa di Rocky sulla scalinata, in tuta grigia e cappuccio calato sulla faccia; l’altra corsa, in bicicletta, di Warren Beatty incontro alla galleria e al paradiso.  Il dittatore dello stato libero di Bananas, Invito a cena con delitto, Assassinio sull’Orient Express. Hair. Fratello Sole e Sorella Luna. Odissea 2001. Arancia meccanica invece no, l’hanno dato solo al Blow up a Viareggio.
Prime, seconde e terze visioni, tutte nel calderone. Senza paura di sbagliare, senza guardare il botteghino.
Decidevamo chi portava chi in piedi sulla graziella e partivamo. Legavamo le bici sulle rastrelliere di ferro arrugginite, facevamo il biglietto e andavamo al bar. Gazzosa con le stringhe di liquerizia, semi di zucca salati e croccante di pinoli. Al bar si respirava il vero odore del cinema e si fremeva in attesa.
Lo spettacolo iniziava solo con l’arrivo della notte. Il biglietto costava pochissimo; potevi scegliere tra galleria, cioè le prime file, vicine ai bagni, piantate su un palco di legno, e platea, tutte le altre. Invero l’opzione era tra sedie marroni, di legno e sagomate diciamo confortevoli e sedili in listelli verniciati di verde, scomodi all’apparenza, una tortura con il procedere della proiezione. Però si poteva fumare.
Il Tirreno era l’idea stessa di cinema. La sala aveva il ghiaino in terra, un corridoio centrale, il cielo e il vento sopra le teste. Il grande schermo era l’unico elemento architettonico, montato su una struttura di ferro dall’aspetto traballante contro un’immensa parete di cipressi. Sul fondo le chiome a ombrello dei pini, davanti, nuvole di zanzare che danzavano nel fascio di luce. Tutt’intorno la siepe isolava del parcheggio ma non dal rumore, e la vita serale del paese entrava con le risate dei ragazzi in due sul Ciao che sfrecciavano verso la marina.
Ma quando iniziava il film, spariva il fuori e si entrava nella storia.
Alla fine dei titoli di testa il parcheggio era già pieno di persone che guardavano il film a scrocco, mettendosi in punta di piedi dove la siepe era più bassa. A metà del secondo tempo venivano aperti i portoni d’uscita e potevano entrare anche loro. Alla fine dello spettacolo, per i ritardatari si proiettava nuovamente il primo tempo, così si poteva vedere il film all’incontrario, però gratis.
Dopo ferragosto le giornate si accorciavano e lo spettacolo iniziava prima, l’aria rinfrescava e serviva la felpa. Se scoppiava il temporale si scappava dietro, in galleria, che era sotto la tettoia di onduline, mentre un telo di plastica scorreva per riparare le prime file della platea. Se la pioggia scrosciava, il suo battere forte copriva il sonoro. L’odore di pineta bagnata era già odore di settembre.
Alla biglietteria stava la signora con gli occhiali spessi; dietro al vetro prendeva i soldi e dava i biglietti verdi o rosa, di carta sottile con il timbro della SIAE. Davanti alle tende pesanti dell’ingresso stava il signore, basso e paffuto, che strappava il talloncino.
Una volta mia madre, non trovandomi da nessuna parte, spedì mia sorella a cercarmi. Lei arrivò fino al botteghino, chiese alla signora se avesse visto una bambina così e così e lei “se è una identica a te è dentro”, e il signore le fece strada con la torcia per cercarmi.
L’ultima volta che ho comprato il biglietto è stato per vedere Matrix. Ci sono andata da sola, in bicicletta, dopo anni che non ci andavo più. Mi sono arrotolata due joint da tenere nel pacchetto, uno per tempo, perché ancora si poteva fumare, e per godermi il film. Quando sono uscita ero sicuramente la reincarnazione di Trinity e fluttuavo nella matrice con la lingua lessata dal sale dei bruscolini. E non aveva neanche il surround.
Mi si racconta come sia morto il proprietario, come ai figli non interessasse l’articolo, come il bar abbia cambiato gestione quattro o cinque volte e il cinema abbia spento le luci e staccato la spina.
Però i pannelli di legno sono sempre lì, accanto all’ingresso del parcheggio.
Finchè ci sono i pannelli, c’è speranza.

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