lunedì 22 agosto 2011

Donna Olivia

Quando ho sentito suonare il campanello mi sono affacciata, sicura che non fosse il mio. Mi sono affacciata e l’ho visto in strada; aveva i capelli raccolti in una coda bassa e lo sguardo rivolto a valle, verso la città. Le ginocchia piegate appoggiate al muretto, il mento lievemente alzato, annusando l’aria come se profumasse. Subito dopo di me si è affacciata la padrona di casa, al piano di sotto.
“Non ci posso credere” ha esclamato, ha richiuso la finestra ed è scesa in strada.
Le loro voci entravano in casa dalle finestre lasciate aperte alla ricerca di aria fresca, così non ero affatto sorpresa quando è stato il turno del mio campanello.
“ No che non mi dispiace, certo che può venire a vedere. Se non ti disturba il disordine”.
“Ma figurati, non hai idea di come mia madre tenesse la casa”
L’avevo già visto tantissime volte in paese, e poi era sparito. Solo ora scoprivo chi fosse: il ragazzo che abitava nella casa in cui ora vivo io.
“Avete spostato il tavolo qui. In effetti, almeno vi godete il caminetto quando mangiate”
Poi si è diretto rapido in corridoio, e girandosi verso di me “Dai, avete messo il cronotermostato. Avete fatto bene, non hai idea del freddo che abbiamo patito”. Ha osservato il termostato estasiato, poi è entrato in cucina, e ha posato le dita sulla caldaia, accarezzandola con i polpastrelli. “Quella non l’abbiamo cambiata”, gli ho detto io e lui “Lo vedo, è sempre lei. Salta ancora la scheda con i fulmini? Ne abbiamo cambiate a decine. Ora posso andare in camera mia?”
Non pensavo e invece la sua camera è quella in fondo al corridoio. Quando siamo entrati in casa vedendo che avevano messo la lavatrice proprio lì, l’abbiamo destinata agli ospiti, sapendo che sarebbe stata in realtà la lavanderia. Montagne di panni lavati e da lavare che si rincorrono tra cesti, pavimento e letto.
“Sicuro, ma dammi un minuto, gli do’ una parvenza d’ordine”. Raccatto dove posso e come posso e lo faccio entrare. Poi lo lascio solo, quasi vergognandomi di essere entrata in camera sua.
“Si sono trasferiti in Canada –mi spiega la padrona di casa- la mamma ha trovato lavoro là, ma a lui Piazzano è rimasto nel cuore. Prima gli ho offerto un biscotto del Bandoni, e lui si è commosso, mentre mi raccontava le attese in strada del furgone del panaio e le colazioni con quei biscotti. Mi ha fatto una tenerezza”.  Ma l’ultima frase l’ha detta abbassando il tono, vedendo che il ragazzo era uscito dalla camera.
“Vieni a vedere le altre stanze”. Gli faccio strada: “Questa è la nostra camera, e questa è la camera delle bambine. Abbiamo cambiato un po’ di cose, portato qualche mobile”, ma mentre parlo mi rendo conto che non ho più la sua attenzione, ormai catturata dalla finestra del soggiorno.
“Che bella vista che c’è da qui. Peccato che quella è solo Sant’Anna. Se si potessero vedere le mura sarebbe meraviglioso, ma anche così è proprio bella”
Ma pensa, è Sant’Anna. E io che l’ho sempre spacciata per Lucca. Però sì, è davvero una bella vista.

Anch’io ero tornata, una volta. Avevo vissuto dieci mesi a Oporto e l’anno successivo ero tornata. Avevo abitato nella Rua Cima do Muro, accanto alla piazza della Ribeira, una casa bellissima con una vista mozzafiato sulle cantine del Porto e sul fiume. Durante quell’anno avevo frequentato l’università, ero uscita la sera e camminato per i quartieri, ma i momenti che mi sono rimasti dentro sono quelli passati alla finestra. Il cielo sempre in movimento, il fiume così imponente, il ponte Don Luiz, la piazza della Ribeira che si riempiva e si svuotava, come in Koyaanisqatzi.
Guardavo giù per vedere chi avesse suonato al campanello, per poi scendere ad aprire, guardavo quando l’autobus percorreva il ponte, perché facevo in tempo a scendere e arrivare alla fermata, aspettavo che il sole tramontasse e la piazza si riempisse, così potevo unirmi alla vita notturna.
Se dimenticavo la chiave del portone, c’era Donna Olivia, al primo piano. Era sempre affacciata, e quando vedeva la menina italiana aspettare seduta sul muro, mi chiamava e mi lanciava la chiave legata ad uno spago. Io aprivo e lei ritirava su la chiave.
Quando sono tornata, sono passata sotto alla casa di rua Cima do Muro e mi sono seduta, aspettando di sentire Donna Olivia chiamarmi. Mi avrebbe tirato la chiave e sarei salita, stando attenda a percorrere le scale di legno sul lato della parete, perché erano vecchie e pericolanti. Sarei arrivata con il fiatone al terzo piano e sarei entrata nel grande salone centrale. Avrei sentito sotto i miei passi lo scricchiolio del legno e avrei scostato la tenda che nascondeva l’alcova che mi avevo protetto tante notti.
E poi, mi sarei affacciata alla finestra. Anzi, le avrei girate tutte e cinque. Avrei guardato il fiume, il cielo, la piazza. Avrei seguito il movimento delle persone nella piazza, e le barche attraccare al molo, e aspettato di vedere il treno passare sul ponte Eiffel. Avrei annusato l’aria e cercato le differenze sperando di non trovarne. E poi sarei uscita, perché il viaggio nei ricordi è come un sogno e non può durare troppo a lungo.
In quel pomeriggio sono stata la Donna Olivia che non avevo trovato a Oporto e mi ha fatto piacere. Non si entra facilmente nei sogni degli altri.

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