venerdì 14 giugno 2013

Delle cicale.


Intanto la cicala di mare bisogna saperla pulire.
Questo l’ho scoperto all’inizio dell’estate dei quasi 17 anni quando i ragazzi del paese invitarono proprio me ad una cena alla bilancia sul lago, non le mie sorelle e “però portate anche lei” di mamma.
Per la cena comprai una tonnellata di cicale, feci il soffritto di aglio e prezzemolo sfumandolo con il vino bianco e quando l’aglio si fu ammorbidito buttai le cicale così, intere, come me le aveva vendute il pescatore al molo quel pomeriggio. Scolai la pasta al dente e feci saltare tutto in una teglia da forno, perché padelle grandi non ne avevo. Feci in tempo a coprire la teglia con la carta d’alluminio proprio poco prima che mi chiamassero dal cancello di legno in fondo al giardino.
Con la teglia e il suo profumo di pasta alle cicale arrivammo fino al lago, montammo sui barchini, navigammo lungo uno dei canali del padule addentrandoci nel canneto, tra le carpe che saltavano fuori dall’acqua nera e l’odore di lago, in una notte chiara di luna piena in quell’inizio estate di quasi 17 anni.
Attraccammo i barchini al piccolo pontile della bilancia e ci sistemammo sotto la tettoia della capanna, accendemmo le lampade a gas da campeggio e preparammo la tavola e bevemmo il vino bianco dal fiasco e mangiammo bruschetta con l’olio dell’oliveto, poi portai la mia pasta in tavola ed era da sballo, e capii alla prima forchettata che le cicale di mare pungono e ti si aggrappano alla carne e ti tagliano le guance e le labbra, se non le sai pulire.
Loro, i ragazzi del paese, mangiarono la pasta e fecero anche i complimenti ché a quell’età non ti importa se ti stai massacrando le guance, quando il vino scorre e sei di fronte ad un lago nero e una luna immensa.
Così ho imparato che le cicale sono buonissime ma bisogna saperle pulire.
Bisogna staccar loro le zampette piccine, che stanno vicino alla testa, ringraziandole mentre si agitano e ti scappano dalle mani, togliere le zampe posteriori accanto alla coda, che sono pelose e hanno i pungiglioni affilati, tagliare le punte a uncino che si trovano sulle scaglie laterali. Vanno aperte con le forbici lungo il dorso e ora che hanno finito di agitarsi vanno tagliate in due o tre parti: testa, tronco, coda. Solo così le puoi cuocere e mangiare.
Le cicale di mare non le puoi mangiare con la forchetta, come potresti fare con i gamberoni o gli scampi o con l’astice. Per mangiare le cicale devi sporcarti le mani, aprirle tra le dita e infilarci la lingua e succhiarne la carne dal tronco o dalla testa. Se sei fortunata trovi una sorpresa, il corallo, che ha un sapore senza pari. Devi però fare attenzione, perché qualche punta affilata ci scappa sempre, la coda la devi stringere fra i denti e morderla e succhiarla senza avvicinare troppo le labbra.
Sarà difficile dire quale delle tre parti è la più buona, la testa con il suo gusto acre, il corpo con la sua carne tenera, la coda con il sugo da raggiungere.
Le cicale di mare sono favolose, sono primitive e selvatiche, sanno di mare, ti lasciano il profumo delle onde sulle dita e i ricordi dell’inizio dell’estate addosso.

Ecco.
Questo racconto è stato spedito a Radio 24, selezionato, editato da Stefano D'Andrea e letto da Matteo Caccia durante la trasmissione "Voi siete qui" il 14 giugno 2013 e lo potete ascoltare qui

giovedì 13 giugno 2013

Storia di X



Laureato, lavora in una multinazionale, ha anche raggiunto una certa posizione. Conosce la donna della sua vita, s’innamorano e si sposano. Lei è ereditiera, papà produce confetti ed è noto in tutto il nord Italia; lui lascia la multinazionale e la certa posizione, passa a fare confetti.
Papà vuole vedere di che pasta è fatto, lo mette alla produzione. Lui sta lì con gli altri, vestito da pasticcere, e controlla se le mandorle siano ben sbucciate e ben glassate, al limite si concede qualche escursione nel cioccolato.
Confetti per comunioni, lauree, matrimoni. Ogni giorno immerso nel loro profumo; un giorno esce dalla fabbrica con il suo profumo di mandorle e glassa addosso e a casa trova lei con un altro uomo e un altro profumo, parecchio amaro.
Scompare; i genitori lo cercano a casa, gli amici chiamano gli amici. Macché, niente, lui è vaporizzato; ospedali, polizia, volantini sparsi nel quartiere e annunci sul giornale.
Dopo settimane lo rintracciano in Francia. Ha parcheggiato la sua macchina di fronte all’oceano e se ne sta lì a  vivere di niente. Lo vanno a prendere e lo riportano in città, si rifiuta di tornare dai suoi; alcuni amici lo ospitano.
Una volta tornato non parla per mesi, proprio non apre bocca. Poi all’improvviso ricomincia a parlare e racconta delle mandorle dolci, del profumo amaro, del viaggio, del parcheggio sull’oceano, della vita di niente e delle notti in macchina. I suoi genitori lo aiutano e ora fa l’edicolante.
Non riuscirò più a guardare un edicolante senza chiedermi quale storia l’ha portato dentro un’edicola.

mercoledì 29 maggio 2013

Ouvrir une porte. L'Auditorium di Pigna



Se la vocina suggerisce aprire tutte le porte, sempre, io lo faccio, ché dietro ogni porta c’è una sorpresa. Quindi apro il portone in legno che ho davanti ed entro.
Aspetto che gli occhi si abituino alla diversa intensità della luce, mi porto verso il parapetto che ora finalmente intravedo a lato del foyer e mi affaccio. Un pavimento in legno nero, una gradinata con i sedili richiusi, pareti forate come le murature medioevali, nove sedie disposte a emiciclo e nove musici seduti, sotto il cono di luce degli spot.
Nove musici, niente abito di scena ma leggii, partiture e strumenti. Ogni musico assomiglia al proprio strumento; il flauto porta le ballerine, è esile e parla sottovoce; oboe e clarini sono indisciplinati e ridono spesso, fagotto e controfagotto parlano poco e sempre a proposito. Poi ci sono i corni; mi domando cosa spinge una persona ad imparare a suonare il corno.
Il primo corno dirige, osserva i compagni, solfeggia sulla partitura indicando gli accenti, il secondo annuisce e puntualizza. Poi il primo corno dà il via, con un movimento deciso della testa.
Iniziano a suonare e la sala si accende di una musica limpida, e quando la musica è limpida si può vedere, si possono seguire le onde disegnare l’aria, rincorrersi e saltellare fino a scomparire. Rapita le seguo, le onde, le guardo accarezzare le mura nude, rimbalzare sulla cupola in mattoni e scorrere lungo l’assito sopra la gradinata.
L’ultima onda si dissolve, le labbra si staccano dagli strumenti; il primo corno svuota il suo ottone dalla saliva, corregge gli oboe e sprona il flauto, il fagotto produce una nota bassa e il clarinetto pulisce l’ancia.
Riprendono; il flauto è timido ma dovrebbe essere sfrontato. Prova e riprova l’attacco, chiede scusa e prova ancora. Pazienti gli altri aspettano; quando il flauto dà il via proprio come il primo corno vorrebbe, gli ottoni e i legni entrano in successione e la musica può danzare.
Finito. Il flauto si alza, inciampa, volano gli spartiti, li raccoglie, saluta i compagni.
Finito. Esco, il portone di legno mi riporta sulla terra.
Devo googolare per capire a pieno. Le pareti in terra cruda, la volta in mattoni, l’assito al soffitto e i fori, tutto è studiato per la perfezione acustica. Un gioiello di architettura contemporanea incastonato a 224 metri di altitudine in un paese di 102 anime, in Balagna. Un comune morente che investe in cultura, trasformando la sua agonia in eccezione; oggi vengono da tutta Europa per registrare in questa sala.
Architettura che diventa musica, ed è bastato aprire una porta.