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giovedì 10 luglio 2014

Sull'onda del Seveso

Vado a recuperare la macchina in mezzo alla fanga eterogenea del Seveso, per portarla in salvo. Ci vado in sandali, perché sono appena scesa dal treno che dal mare riporta in città.
L'odore della fanga è inequivocabile, quel buon olezzo misto, di natura ignota. O meglio, di quella natura che fa brutto nominare.
Camminando mi rendo conto che avrei fatto meglio a passare da casa e cambiarmi le scarpe, maledizione, le dita dei piedi già sciacquettano nel marron scolorito. Rabbrividisco.
In fondo è andata bene - mi dico arrivando- la piazzetta dove è parcheggiata non mostra gravi danni. Mio cognato l'ha spostata in un luogo sicuro statico: santo subito.
Non voglio entrare in macchina con quei piedi marron, così mi fermo al drago verde dei giardinetti. Mi laverò i piedi, mariamaddelena di me stessa.
Con sforzo inaudito rimango in equilibrio, prima su un piede, poi sull'altro, mentre l'acqua scioglie la fanga che si era già seccata, ahimè. Mi guardo intorno, con pudore. 
Non è che io mi piaccia tanto, in quella posizione ebete, con un sandalo in mano, la borsa in bocca e il piede sotto quelle tre gocce ghiacce.
C'è un tizio con la maglia rossa, appena più in là, seduto sulla panchina.
M'osserva insistente.
Ha in mano qualcosa.
Oh. Se è uno smartphone e mi ritrovo su instagram lo denuncio.
Tizio Rosso non avrai il mio hashtag.
Mi lavo frettolosa, sciacquo il sandalo, evito di spalmarmi d'olio e d'asciugarmi con i capelli. Rimetto il sandalo e m'allontano, tenendo d'occhio il Tizio Rosso e quella sacchetta sospetta che tiene in mano. Monto in macchina, metto in moto. Parte, grazie al cielo.
Un ultimo sguardo al Tizio. Ha aperto la sacchetta sospetta, ha estratto sapone e salvietta, e va lavandosi faccia e ascelle.
Ma porcaccia miseria, avessi avuto uno smartphone. 
L'avrei instagrammato.

sabato 21 settembre 2013

Matteo e la settimana della moda



Matteo ha lo sguardo rassegnato mentre passa tra i tavoli con il vassoio in mano, penso per il fatto che a centodiciotto passi dal bar dove lavora hanno eretto il tendone in fashion pvc di un qualche evento della settimana della moda. Quindi ogni volta che attraversa il marciapiede per portare le ordinazioni deve fare una pausa per far passare una Britney Spears che si tiene sul braccio lo strascico in poliestere per non sporcarlo, una Morticia Addams che carambola sul tacco 12 o un Fra’ Cionfoli in tenuta da marinaio coreano con i pantaloni acqua-in-casa.
Matteo lavora in  uno di quei bar di Corso Sempione dove se ordini “una Becks e un po’ di patatine”, dall’aggeggio che tiene alla cintura tipo ausiliario del traffico esce un biglietto che devi portare alla cassa quando vai a pagare, dove c’è scritto “una Becks e un po’ di patatine” e mi viene da chiedermi in che modo quantificheranno il “un po’” alla cassa.
Matteo si trova con il tendone in fashion pvc a centodiciotto passi, Morticia che carambola sul lastrico davanti al bar e un aggeggio alla cintura che stampa scritte tipo “un po’ di patatine”. Per forza ha lo sguardo rassegnato, mi viene da pensare, ma forse no. Magari è proprio la sua fisionomia.
In effetti quando arrivo al banco e faccio il mio ordine Matteo il rassegnato si illumina: “Davvero lo vuole corretto? è così raro qui servire un caffè corretto” e mi sembra un entusiasmo eccessivo e mal riposto, vista la ragione. Ma penso che non sia comunque entusiasmo da buttare via, giacché è riuscito a smuoverlo dalla sua rassegnazione.
Nell’entusiasmo mi prepara il caffè e mi fa scegliere il rum per la correzione, e parliamo delle nostre origini e di dove siamo e di dove finiremo, come in una sitcom che si rispetti.
“E poi oggi è caldo” dico, ché c’è afa e si suda, maledetta mezza stagione, e mentre finisco la frase entra una signora che indossa un piumino nero a tre quarti stretto in vita, e un cappello di lana a forma di cresta di gallo che le copre pure le orecchie. Chiede dov’è la toilette.
Matteo torna a farsi rassegnato, e la battuta sulla grolla dell’amicizia me la tengo per me, ché non voglio mica infierire.

mercoledì 27 febbraio 2013

Un altro fottuto tramonto.


Ci sono giornate come questa in cui lo odio, il mare.
Quando l’inverno sta per finire.
L’inverno qui dura poco, un mese neanche, eppure pesa, uh se pesa. In quel mese respiro la mestizia delle giornate inutili, la solitudine del sopravvissuto, il rimpianto della velocità. Mi dà fastidio la sensazione di stallo, il lungomare deserto, i locali chiusi per ferie, le passeggiate meditative sulla spiaggia, persino i tramonti, tutti uguali.
Talmente tutti uguali che non ci vado neanche più a vederlo il tramonto, tanto cosa ci vado a fare. Mai una volta che boh, arrivo alla rotonda di Torre del Lago e il cielo è bigio, stagno, compatto, informe.
No, nessuna sorpresa, il tramonto qui è sempre meraviglioso.
Così penso che palle, un altro fottuto tramonto in riva al mare, perché l’inverno fa sembrare che qui, a parte il tramonto sul mare, non è che ci sia poi molto altro.
L’inverno fa venire voglia di scappare, non mi ci frega più un altro inverno qui, penso, se non fossi in questo posto dimenticato dall’attività professionale e dalle iniziative potrei fare cose e vedere gente, e mi prende la melanconia urbana, la voglia della linea 3 e della frenesia alla cassa del cinema.
Poi arriva una giornata come questa, anticipazione del mutamento.
Allora ricordo che esistono altre stagioni, rispolvero i vecchi paragoni, in città la primavera non ha profumo, penso, e l’estate sa di asfalto caldo e condizionatori a palla.
Tornano alla mente le pause pranzo di maggio sulla riva al mare, l’odore del camuciolo che sale dalla sabbia calda di mezzogiorno, le telefonate a spregio agli amici metropolitani passeggiando tra le dune, le birrette all’uscita dell’ufficio bevute osservando i bagnini che pettinano la spiaggia. Ringalluzzisco, dimenticando la mestizia delle giornate inutili e la solitudine del sopravvissuto, riprendo a sorridere.
In giornate come questa odio il mare che trasforma la mestizia in promessa di felicità e la solitudine in aspettativa del domani. Il mare non lascia mai in pace, sembra messo lì apposta per portar scompiglio.
Vivere qui, a Torre del Lago, mi fa sentire come Ulisse a Ogigia, prigioniero di un sogno.

martedì 1 gennaio 2013

Il primo giorno dell'anno




Trovalo un bar aperto la mattina del primo gennaio, per il caffè, e magari vicino casa perché non hai tanto tempo. Io ci provo, sono a Milano, perbacco, un bar lo troverò.
La prima speranza sfuma davanti alla saracinesca abbassata, la seconda idem. Però la vetrina di Hani, il pizzaiolo egiziano proprio all’angolo, non è chiusa. Passo in esplorazione, mi avvicino, spingo la porta ma niente da fare. Parto per il terzo tentativo, Hani apre e mi chiama.
“La macchina del caffè è accesa”.
Entro, mi avvicino al banco, Hani mi fa il caffè e sa già come lo voglio.
“Ieri sera ho lavorato tanto, anch’io ne avevo bisogno” mentre mi passa la tazzina, poi beve il suo caffè. Io cerco il portafoglio ma no, lui soldi non ne vuole “questo lo offro io, signora” con un gesto gentile perfetto per il momento.

Di fronte alla pizzeria di Hani, la piazzetta con qualche gioco, un castello con lo scivolo, due altalene, un paio di aggeggi su molla. Una donna e tre bambini.
I bambini corrono, si arrampicano, saltano e dondolano. La donna siede sulla panchina, ha un berretto che le avvolge la testa lasciando scappare dei ricci mori. Tiene chiuso il cappotto con le braccia, incorciandole attorno alla vita, abbracciandosi. Le gambe accavallate, fuma velocemente una sigaretta che si è arrotolata.
Ogni tanto un bimbetto la chiama e lei osserva con interesse forzato l’evoluzione infantile, poi di nuovo aspira e torna a guardare oltre, verso la villetta di fronte. Tiene lo sguardo fisso sulla finestra del primo piano, con le tende tirate e la luce spenta. Rimane immobile a fissare la finestra, come in un quadro impressionista, in questa uggia milanese del primo giorno dell’anno.
Un enorme alano le passa di fronte, dall’altra parte della piazzetta. L’alano cammina libero, piscia sul parafango di un’auto parcheggiata, poi si volta ad aspettare il padrone, che arriva con il guinzaglio in mano e il telefono all’orecchio.
La donna si scuote e mette la mano in tasca, guarda il display e rifiuta la chiamata.
Il padrone del cane toglie il telefono dall’orecchio, guarda il display e alza gli occhi verso i giochi.
Guarda i bambini, poi vede lei. Le fa un cenno, sollevando il mento poi smuove di lato la testa, indicando la villetta, la finestra, la tenda tirata e la luce spenta.
Lei sorride, però poco, indica i bimbetti con lo sguardo e fa di no con la testa. Non è aria, non può, niente da fare. E’ legata in quella piazza, a quei giochi.
Lui mette il guinzaglio al cane, raccoglie una merda dal marciapiede, annoda il sacchetto e si volta verso di lei che si è già accesa un’altra sigaretta. Non sorride affatto. Questo primo dell’anno dovranno festeggiarlo in un altro momento.

domenica 4 novembre 2012

Milano #2

giorno

Parco Sempione.
i bambini hanno voluto portarsi dietro gli aeroplanini di carta e ora li stanno facendo volare; li lanciano dall'ultimo gradone dell'anfiteatro, poi saltano giù per andare a riprenderli.
è un gioco da nulla ma si stanno divertendo davvero, ed è un'allegria talmente contagiosa che anche quella signora francese che se ne stava lì, zitta, ad osservare, si alza, raccoglie da te
rra uno degli areoplani e lo lancia verso l'alto, verso i bambini che cercano di prenderlo al volo.
poi li ringrazia, saluta e riprende la passeggiata.

notte

Rock'n'roll Clubs.
il barman si muove rapido e muove la testa a tempo di musica, mostra orgoglioso le sue belle braccia definite e ogni movimento è studiato per piacere.
danza, mentre toglie i bicchieri dal cestello della lavastoviglie e li ripone sulla mensola, danza mentre prende le bottiglie e prepara i long drink o spina la birra, danza mentre rivolge lo sguardo interrogativo e annuisce sull'ordine.
fare il barman è come fare l'attore, tutte le sere monti sul palcoscenico.
due ragazze se lo mangiano con gli occhi, lui che danza nel preparare le loro bevute e si ferma solo un attimo, mentre aspetta i soldi del conto.
la moretta che è più sbirbita approfitta della sua pausa:
"cosa sarebbe questo?" e gli sfiora il braccio
"ho tattuato sui miei arti i quattro elementi: aria e acqua sulle gambe, terra e fuoco sulle braccia; questa è la terra" risponde lui alzando la voce per farsi sentire malgrado la musica.
il suo braccio destro è completamente tattuato, in maniera uniforme, dal polso alla spalla, solo rimangono bianche delle piccole aureole attorno ai nei, e sembra un cielo stellato; il sinistro è ricoperto da fiamme che si rincorrono e guizzano lungo i muscoli.
il barman torna a danzare, la moretta rimane ammirata e senza argomenti; si direbbe curiosa di vedere anche aria e acqua e soprattutto l'effetto d'insieme.

ponte di via Quadrio.
lo skyline di Milano è diverso: grattacieli cresciuti in pochi mesi, persino una piccola torre di Tatlin su un nuovo tetto di corso Como.
"com'è bella questa città, quando non ci stai più e poi ci torni"

mercoledì 20 giugno 2012

sarah connor

Nel '94 m'era presa così, avevo iniziato a fare body building e mi ero rasata i capelli tipo Sinéad O'Connor, perchè il mio ideale estetico di donna era Sarah Connor in Terminator II però con la vocetta meravigliosa di Nothing compares.
Mia sorella Suso s'era comprata una moto usata Honda 750 nera clamorosa, che aveva fatto rimettere a posto e cromare, perchè era il sogno della sua adolescenza e ora se lo poteva permettere.
Taglio nuovo, sella nuova, bauletti, tenda e sacco a pelo, verso l'île de Beauté per due settimane da sorelle.
Traghetto, giro del dito, costa, curve, tante tante curve e altrettanto mare.
Nella sosta al campeggio sulla Restonica, abbiamo conosciuto la "vendetta corsa" che di solito viene attuata per mezzo delle affilatissime lame corse nei confronti di persone che si macchiano di comportamenti poco civili, e ci siamo fiammate la sella nuova (MAI entrare in un campeggio corso alle 11 di sera con il motore acceso della moto).
Nella sosta al campeggio di Pinarello, invece, abbiamo conosciuto la tolleranza corsa. Vedendoci scendere dalla moto, con sorrisi e sguardi di intesa tra noi, che siamo sorelle e ci vogliamo bene, quel bel figliolo che stava alla reception con la sua profonda voce corsa ci spiegò "il campeggio non ha piazzole, potete mettervi dove volete. Questa zona è vicina alla spiaggia e ci sono le famiglie, e i bambini giocano e fanno confusione; questa zone è vicina ai bagni e ci sono i ragazzi che la sera chiacchierano e sentono la musica e c'è sempre movimento. Questa zona dietro il boschetto è tranquilla, c'è molta ombra e potete stare tranquille, per la vostra vacanza di coppia"
Vacanza di coppia: l'intesa familiare era stata letta come intesa di coppia.
Poi in grande scioltezza quel bel figliolo era uscito dal banco, si era avvicinato alla moto e in un corso italianizzato "bel moto, oeh! anch'io ne ho una così. Buona vacanza"
Il giorno del nostro rientro a Milano, con la moto ancora carica, ce ne andiamo a far la spesa all'esselunga di via Fauché, che mia sorella abitava in zona e io ero ospite da lei.
Al primo corridoio ci passa davanti una coppia di pischelli, lui si volta, ci guarda e si ferma. Io guardo lei, guardo lui e chiedo permesso, che mi stava proprio davanti e impediva il passo, lui si sposta e quando gli sono accanto mi da uno spintone sbattendomi contro lo scaffale dell'insalata e sottolinea il gesto di gran classe: "a me le lesbiche mi fanno schifo".
Anche qui l'intesa familiare era stata letta come intesa di coppia, ma con tutt'altra disposizione d'animo.
E' stata forse l'unica occasione in cui ho potuto sfruttare la mia preparazione atletica e (figata) sono diventata, per un minuto, Sarah Connor in Terminator II

sabato 16 giugno 2012

Milano #1


Milano è la stazione sfavillante di marmo bianco e il labirinto dei tapis roulant per trovare l’uscita, Milano è l’aria che mi punge il naso per le polveri sottili, Milano è una ragazza profumata che mi passa accanto e una barbona che mi ammorba subito dopo, Milano sono i tappi di birra incastrati nell’asfalto ammorbidito dal caldo dell’estate e i segni dei cavalletti di chissà quante moto cadute, Milano è un cingalese che “mangiamo pizza offro io a te” al suo amico eritreo, Milano è il puzzo di piscio di ogni anfratto della metropolitana, Milano è la cartina dei mezzi illeggibile e consumata dalle ditate, Milano è tre caucasici su venti persone nel vagone della M2, Milano è una coppia in piedi allacciata in un bacio con lui appoggiato al palo per non cadere durante la frenata, Milano è l’uscita dal Piccolo Teatro che si riversa contro di me controcorrente, Milano è la temperatura che cambia tra la stazione e il parco Sempione, Milano è un sms “sissi cara però non posso fare nottata che domani lavoro” di LaG che m’aspettava prima, Milano è la movida, un tavolino accogliente e una decapottabile d’epoca che parcheggia accanto alla sedia, Milano è torno a piedi non ti preoccupare perchè ho voglia di camminare, Milano è il ponte di via Quadrio che m’aspetta da dieci anni e che non vedevo l’ora di percorrere di nuovo, Milano è venti trenta locali che scavallo perchè non m’ispirano, Milano è “la birra piccola non è una bevuta, è un reato” e un chopito di vodka gimlet offerto dalla crew, Milano è un barista con gli occhi azzurri che mi fa il filo perchè è il suo mestiere, Milano è un trans nervoso che tira manate sulle macchine che si avvicinano e una coppia di volontarie che le chiedono perchè, Milano è una passeggiata compiuta a passo svelto e naso all’insù.
Milano è la città dove ho vissuto per trentacinque anni, dove oggi sono tornata per vedere com’è.